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Appenderò ad un raggio

La sveglia antica
del nonno
spezzetta il tempo
batte
come un cuore.

Attendo
e il telefono è là.
Sotto la finestra un cane
parla alla notte.
Una mosca sonora
gira conversa corre - dove?-
Sto collazionando
vecchi copioni per la stampa.
E aspetto

Come inatteso
il trillo
spaura le voci del silenzio.
La mano che si secca d'anni
indugia
il cane a pancia vuota
urla sotto il balcone
e la sveglia antica
nel biedermeier che resiste al tarlo
accelera i suoi battiti
quasi extrasistoli di tempo.

"Pronto".E' il figlio: la sua voce
droga
come linfa di vita.
Un bimbo!
E' nato un bimbo!

Appenderò
ad un raggio dell'aurora
il fiocco bianco.

 

 

Ferruccio Centonze

Taità Kum

(Marco, V,41)

"Talità kum", disse,
e il sole
fra palme di tramonto accese il mare.

Tumultuava la folla
dentro la sinagoga
e un uomo entrò correndo e disse:
"La figliola di Giairo, Maestro!".
E altre cose disse.

Nella casa di Giairo
dormiva la fanciulla
l'eterno sonno.
Ma nella luce dell'uscio
il mantello sbattè come una vela.
"Talità kum" disse, entrando il Maestro
"surge".
Nel corpo
fisso di morte
fermo d'alabastro
brividi corsero,
aghi di sole.
Strizzò gli occhi
e guardò alla lama di sole che lampeggiò
tra ciglio e ciglio.
"Alzati e cammina".
Il velo cadde e abbrividì ogni suono
nella casa di Giairo.
E lei si alzò,
che ritornava
di là dell'ultimo confine.
Disse:"Dov'è? Dov'è la Voce?"
Ma il Maestro già andava,

Andava e va.
E va. Come ogni cristo
verso il sacrificio.

 

 

Ferruccio Centonze

Forse s'uccide la coscienza

Io li ho veduti. Erano là,
cadaveri pieni di piaghe.
La morte
li aveva allineati sulle dighe
sulle dune sui monti negli igloo.
Qua e là paludi
e valli raggrumate e croste
di terra rattrappita.
Teste di lardo
con strisce e piaghe e bozze
rampollavano dal fango
e sulla fronte
avevano una stella a sette punte.
Cento, tremila (centomila?)
con bocche enormi aperte a mangiar pietre
nella creta dei fossi.
Centomila, duecento, un'infinita
fila si perdeva all'orizzonte
e piangeva il cielo rosso, e la distesa
del mare tamburava sorda
sui moli deserti e i camposanti
senza fiori, sulle fosse aperte.
E non c'era più fiume
né torrente né pozzo né favilla di vita
e inaridiva il pioppo e si schiantava il melo
e cadevano siepi.
Il gran silenzio
avvolgeva la roggia e la miniera
e i capannoni, e non s'udiva
negli atri vuoti voce di studente.

Così nel sogno.
Poi l'implacabile cicala della mente
mi aprì gli occhi.

Chissà…
forse "s'uccide la coscienza"
giorno per giorno, e nell'oblio
cade la parola di Matteo: "In verità
vi dico di vegliare
perché né il giorno
né l'ora conoscete".

 

 

Ferruccio Centonze

Stagioni dentro un osso

Stagioni
l'una nell'altra
dentro un osso.

Anni del calendario
a imbuto
come cartocci del semenzaro
avvitati nel fegato di un uomo:
bipede a corda
carico di boria
cui un neo che s'inquini
sbrecca i pezzi del tempo
annidati nel "vago".

Gira sui tetti
la banderuola
dai secoli dei secoli
e si ripete l'uomo.
Fino a quando
l'Angelo
non aprirà il Settimo Sigillo.

 

 

Ferruccio Centonze

Col primo sbalzo d'alba

Nel Palazzo
batte la Paura
con le nocche dure
dell'incubo notturno
- il pastrano nero
lungo sugli stivali
e la celata d'acciaio -.

Sventrate
le casseforti, sparita
ogni riserva. Sfiuma
nei corridoi, da grondaie di gelo,
puteolente il liquame,
invade i corridoi, svicola
nelle stanze.
I contratti
con firme di coscienza
sono sommersi.

Dalle caserme
sommesse voci, trapestio
sui viali.

La Paura
strappa pigiami da corpi infreddoliti,
guazzano i piedi – parestesie
ai talloni, scarpe senza stringhe,
il visone buttato sulle spalle -.
Dove?, da dove?". "Dietro la casa,
forse di là".

Ma sui crinali,
nelle forre nei tratturi
sul padùle di Nìnive
non c'è spazio di cielo
perché il Cielo
solo una volta concede il suo perdono.
Contro l'orizzonte
siluettano forche: nodi di pazienza
preparati negli anni.

Non c'è scampo:
torme di bambini
da ogni monte da ogni ansa da ogni pietra
chiedono perché son morti
- hanno braccia di canna, volti fatti d'osso -.

Uno sputo di sole fra gli scuri.

Gli occhi si riaprono
e nel Palazzo
riaffiora,
dal fango diaccio dell'incubo notturno
la Sicumèra.

Nei tuguri nelle case perse
nella fame antica
col primo sbalzo d'alba
miagola la Paura ad occhi aperti

Col primo sbalzo d'alba.

 

 

Ferruccio Centonze

Ho mille occhi

Ho mille occhi
tutti per cercarti
su rotabili nere,
davanti alle vetrine,
dentro gli empori,
a Banja Luka,
sul sagrato delle chiese
calpestate derise insudiciate –
nei giardini,
sul greto dei fiumi,
nei campi di Polonia,
ad ogni svolta di strada,
nella torre saracena,
sulle rive del Xanto,
nel Guam,
nei distretti del Palisa,
nell'Ossola,
nel fuoco di un tramonto.
Iridi pazze
mille mille occhi,
slarghi di follia,
brughiere
intricate di smerghi
e il tempo si dilata
si contrae si accende,
il tempo:
un annacquato lungo
infuso di morte
bevuto goccia a goccia –
Zolle di pensieri
staccate
dai campi acquitrinosi
della memoria.
Mille mille occhi per cercarti.
Chi sei , un volto
un respiro gli anni miei perduti?, chi ,
chi sei? Forse Eleonora
che spezzò il pane
e bevve il vino
della scapigliatura?
O Merìca
che coglieva la yuca
e cuoceva focacce di cassàva?
Cercano gli occhi i mille occhi
cercano ancora
nei roveti,
sulla ghiaia di Sistiana,
nei pozzi di Opcina,
fra le doline,
nell'eco di una valle
fra le sabbie
nello scirocco, nel sole di gennaio
dolce grigiastro amaro –
fra le rovine e i crolli
del giugno del luglio del settembre
e dell'aprile
Goccia a goccia dal calice
cadeva
il sangue di Cristo –
cercano
fra strade disperate
perse nel tempo.
E il rullo avanza e pesta
e preme e stira.
E livella. Il silenzio
dilaga. Nell'aria
ferma ,soltanto il crepitare
della Geènna.

 

 

Ferruccio Centonze
"Il faro" 27-2-'74

Non seminare cattiva semenza

"Non seminare cattiva semenza
nei solchi
dell'ingiustizia", predicava
l'Ecclesiastico alle turbe:
voce senza eco.
Nel fango, sui marciapiedi
delle metropoli,
sugli scogli di Dover,
fra i tuguri nei suburbi
dell'Ohio, ad Oslo, sul pavé,
fra le nevi di Svezia
nel soffio degli scirocchi e del mistral
concime di cadaveri
alimenta fiori di violenza.

Non esiste più smania di futuro
l'accidia s'incrocia con la bestia
l'ozio dilaga mentre la catena
inghiotte svuota
quello del tempo pieno
il robot
che marca il cartellino
e porta alla casa del quartiere
soltanto pane.
O scarpe.

"Un giorno dura un giorno"
Così la capra.
O il mulo.
Trionfa dai mass-media
il "tutto a posto".
Ci prendiamo in giro. Ancora.
Come quando
ci ritrovammo i panzer per le strade.

 

 

Ferruccio Centonze

Ballata dell'attesa

Grappoli di mutuati nelle antisale
dei medici di base.
Stuoli di diplomati negli elenchi
della manovalanza.
L'attesa è una pietra
dura.

Riaperte le porte degli atenei:
vi bivacca dentro il domani.
Sciamano, davanti ai portoni
delle scuole, a coppie,
maturando pubertà violenta,
i tredicenni.
Nelle prigioni fremono gli internati.
L'attesa è una pietra
dura

Premono, davanti agli ospedali,
visi di cera.
I vecchi, inutile ciarpame,
maturano soltanto
prospettive di fosse comuni.
L'attesa è una pietra
dura.

Ma il vento s'insinua tra gli scassi
dei monti,
fischia s'ingrossa
picchia giù dai colli,
sracina i boschi, svelle le banchine
slivella i mari.
Il cielo è un piombo
fuso.

Fuggono, invasati, coi capelli spersi
su spalle di singhiozzo
i figli di nessuno
la polverina bianca, il cucchiaio
e la siringa, e l'accendino
e il filo d'acqua che cola dagli orinatoi.
Sale, nell'aria disperata, l'invocazione:
Ritorna, Cristo! Tu solo puoi salvarci
Libera nos da questa attesa
di pietra.

 

 

Ferruccio Centonze

L'alfabeto di Dio

Il caffè
versato sul lenzuolo,
il fuoco della cicca sul tappeto
cova morde consuma, ne disvela
la trama!

Oggi c'è astio nelle cose
rimproveri di nebbie nel cervello;
gengive di miseria sulle barche
dell'isola di Kapra,
spurgo
di trigliceridi in "The Beverly Hills diet".

"Il pigro è lapidato con lo sterco di bue"
così la voce del figlio di Sirach
dal tempo… una boutade ora.

Dormono evasioni sui marciapiedi
quelli del "buco"
sulle strade di gesso.

Rimbalza contro il cielo
vox clamantis in deserto:
"il flash
dell'andare del Sapiens
è tutto qua?
E' tutto qua?"

La porta
sbatte con violenza
s'è sferrato il battente
sulla fortuna di vento
sfuggito alla lusinga dell'incrocio di strade.
Slampa una fiamma
trema nel tuono il bilico dei vetri.

L'alfabeto di Dio?

 

 

Ferruccio Centonze
I° Premio "Elimo 1981"

Il tempo aprì una porta

Cercava
dentro il bidone della spazzatura
febbrile nelle mani
e infilava ogni cosa
in una sacca che aveva accanto a sé
una gruccia, un tegame
un libro, un mozzicone
di manico di scopa,
pezzettini di stoffa colorata -.
Indossava una tuta
con ricami di tempo e di miseria
e ognuna delle scarpe
era legata a due passate
con spago bianco fra la suola
di gomma e la tomaia.
Gli occhi spiritati
frugavano qua e là fra strada e strada
per allarmi improvvisi:
si capiva
per quel punto di ruga
che s'aggrondava proprio in cima al naso.
Cercava.
Poi tirò su qualcosa
una cornice rotta
con un vecchio ritratto e corse via.

Il tempo aprì una porta e la rividi.
Anche lei
zappettava così con i monconi
delle braccia.
Cercava fra le ordure
dentro il bidone
in un mattino del quarantatrè.

"Cerchi pane?"
"No", disse, "cerco la bambina"

 

 

Ferruccio Centonze

Ballata per Antonina

Portavi
sulle fragili spalle
il peso dei millenni
la genesi
le stimmate del tempo.

Scontavi
I peccati del mondo.
Crucis Via
si rinnovava tutte le mattine
con lo squillare della campanella.

Sostava Cristo paziente
sulla panchetta della Prima "C"

Scirocchi di tempeste, piogge, nebbie
e il tuono e il sole
ti stampavano immagini di gioia
negli occhi rassegnati:
vivevi la tua morte
così come innamora
le mele del giardino il dolce autunno.

Sostava Cristo paziente
sulla panchetta della Prima "C"

Venne maggio pietoso
- pietoso maggio -
per te venne Antonina:
sconfinati orizzonti
aria rarefatta valli gigliate, sabbie
di secoli
zampilli d'acque eterne

Ora più il sole
non dà tepore al Cristo
E' vuoto il banco della Prima"C"

 

 

Ferruccio Centonze

La 'ncunia

XX Premio Internazionale di poesia, città di Marineo
Primo premio ex aequo

'Mpruvvisa
comu quannu
lu celu è chiaru
e un tronu s'asdirrupa,
arriva la battuta fulminanti:
tri paroli
jttati ddà
comu benzina supra lu tizzuni.

Quali 'na maraggiata di sciloccu
chi sbatti 'nta li rocchi e po' stracìma,
si spanni la risata
scugnannu li silenzi di li gnuni.
Si spanza, si sbiddica
la cumàrca
sintennu dd'omu
calmu, pinzirusu,
li labbra stritti
l'occhi a vanidduzza.
«Omu d'azzaru»
dici quarchedunu
mentri s'asciuca l'occhi cu li manu,
«sicuru, friddu, 'na 'ncunia di firraru».

Comu 'na cutra di niurùmi e negghia
cala la notti e la cuscenza è sula:

timpesti,
tòrtuli di ddaunàri
sutta la curazza,
crozzi senz'occhi, scrusciu di catini,
cani arraggiati cu denti comu chiova.
Di lu celu
scinni un slampìu di focu, zichiànnu.

L'azzaru
si torci, si prichìa,
si sciogghi comu cira.

Cùlanu di la 'ncunia
lacrimi d'omu.

 

 

Ferruccio Centonze

L'incudine

Improvvisa
come quando
il cielo è chiaro
e un tuono si sdirupa,
arriva la boutade fulminante:
tre parole
buttate là
come benzina sul tizzone.

Quale una mareggiata di scirocco
che batte sulle rocce e poi tracìma
si slaga la risata
smovendo i silenzi dei cantoni.
Si spancia, si sbellica
la brigata
sentendo le parole di quell'uomo
calmo pensieroso,
le labbra strette,
gli occhi semichiusi.

"Uomo d'acciaio"
dice qualcheduno
mentre s'asciuga gli occhi con le mani,
"sicuro freddo
come la dura incudine del fabbro".

Quale una coltre di nerume e nebbie
cala la notte e la coscienza è sola!
Tempeste, incubi di bufere
sotto la corazza,
teschi senz'occhi, scroscio di catene,
cani rabbiosi con denti come chiodi.
Dal cielo
cala zigzagando
uno slampìo di fuoco.
L'acciaio si torce, s'attrappisce
si scioglie come cera.

Colano dall'incudine
lacrime d'uomo.

 

 

Ferruccio Centonze

Fu la tomba del sole

O nebbie, o di Poseidone
cupa stagione!
Torna dal tempo
il canto breve
l'ammonimento
di Tzang-Giang-Jamsò
non aprire il tuo cuore
alla donna che ami
segretamente -.
E invece
ti vagheggiai dolce,
bocca di mela,
ti svelai
ogni piega, ogni pensiero.
Fu come se un vento,
una follia di vento
spazzasse gli anni,
e scordai la voce
della quadriglia
degli Indios-Piaròa
io, vecchio,
danzo nell'amàca:
i miei piedi sono freddi -.
Poi un mattino
quando il cielo
gemeva acqua, e sulla grande strada
un uomo abbaiava, povero,
un mattino
fu la tomba del sole
fine della fine.
Forse
l'aver posato il piede
sopra il collo spezzato
del leone
fu sadica
compensazione
alla tua nevrosi.
O forse la paura
di mostrarti diversa,
di mostrar le pulsioni
del cordone ombelicale
attaccato alla terra
infiammata.
«Larme» dal tempo:
il rimpianto
del pescatore d'oro e di conchiglie
rimbaudiano
Dire que je n'ai pas eu souci de boire -.

 

 

Ferruccio Centonze