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Ferruccio Centonze - Biografia Teatro Selinus - Castelvetrano

Ferruccio Centonze o della Francia nel cuore

di Giovanni Saverio Santangelo

Nell'assumere la parola, non posso certamente nascondere di dover affrontare una commozione iniziale che mi imporrò tuttavia, in qualche modo, di riuscire a superare. Non mi è possibile, prima di cercare di parlare di Ferruccio Centonze, passare del tutto sotto silenzio gli antichi vincoli di solidale e ininterrotta amicizia che lo legarono, fin oltre i confini del loro itinerario terreno, e a Mariano e a Giorgio Satnangelo, dei quali Egli ebbe il desiderio e la forza di stendere due lucidi e commossi profili in mortem: testi, questi, alla lettura dei quali – dopo la scomparsa di coloro che la Città di Castelvetrano volle, in due successive occasioni, affettuosamente commemorare – fui presente, registrando nelle pieghe più risposte dell'animo e del cuore lo stato di profonda commozione che attanagliava Colui cui era stato affidato il compito di quelle commemorazioni e la cui figura ci troviamo, oggi, a dover a nostra volta rievocare.

 

Altri più di me, sono chiamati a parlarci dello scrittore e del drammaturgo Centonze: altri, qui presenti (De Rosalia) e altri ancora, oggi assenti (Titone,Cottone), che si sono calati con attenzione e con acutezza sulla sua instancabile attività di poligrafo e sulla cifra originale, del tutto peculiare, della sua scrittura. Una scrittura fascinosa, a tratti imprevedibile, pregna di attrattive e di sorprese per il lettore: e una scritura venutasi a mano a mano forgiando, fin dagli esordi della fine degli anni Quaranta, nel lungo percorso effettuato dal giornalista (egli fu giornalista pubblicista fin dal 1952), dall'elzevirista, dal saggista, dal narratore, dal drammaturgo. Tale scrittura trova le sue intime scaturigini nella cultura del Centonze, alla cui formazione hanno offerto importanti contributi non soltanto i classici della nostra letteratura, ma anche, e la cosa mi appare di particolare rilevanza, scrittori d'ogni parte di questo nostro sempre più sciagurato e dolente mondo.

Indizio fin troppo trasparente, questo, di come il Centonze, pur profondamente radicato nella sua (e nostra) cittadina e nella sua amata Isola, abbia saputo restare, poi, abbia saputo anzi continuare a farsi, istante per istante, "cittadino del mondo", consentendo alla sua inesausta sete di conoscenza di vagabondare, lui scrittore "novissimo", fra esperienze antiche e nuove, italiane e straniere, vicine e lontane, spesso lontanissime nel tempo e nello spazio. Così, se è stato possibile richiamare a proposito dei suoi scritti e Leopardi (De Rosalia) e Pirandello (Vasile), non mi sono apparsi per nulla fuor di luogo, scorrendo le dense ed avvincenti pagine di alcuni suoi racconti, neanche le prudenti evocazioni di un Kafka, di un Garcìa Màrquez, di un Poe avanzate da qualcuno (Vasile).


Ora, fra le componenti eterogenee del percorso culturale del Centonze ve n'è una, quella francese, alla quale egli s'era accostato, fin dagli anni giovanili, per motivi che furono indubbiamente, almeno agli inizi, di tipo, per così dire, "professionali". Ed è questo, probabilmente l'unico e vero motivo per il quale esiste una qualche giustificazione che chi parla, dietro le affettuose e pressanti sollecitazioni degli Organizzatori, si trovi qui, oggi, a cercare di illustrare, in qualche modo, tale aspetto del tutto specifico della ricca vicenda intellettuale ed umana del nostro concittadino.
Laureatosi in Lingue e Letterature straniere, Ferruccio Centonze era stato per lunghi anni, prima di assolvere alle funzioni di Preside, docente di Lingua francese. Egli aveva immediatamente avvertito il bisogno di documentarsi sugli autori dei quali era tenuto a parlare ai suoi allievi. Nutrendo già fin da allora una irrefrenabile pulsione verso il teatro – non si può non ricordare come a partire dai primi anni Cinquanta e fino al 1968 egli sia stato, fra l'altro, animatore e Direttore artistico del Piccolo Teatro di Castelvetrano -, il primo momento di approfondimento critico della disciplina da lui impartita verte, verrebe quasi da dire naturalmente, su un autore di commedie. Non si tratta, per di più, di un drammaturgo di poco peso, ma, al contrario di uno di quei nomi che hanno fatto, in assoluto, la storia del teatro: e, cioè, quel Jean-Baptiste Poquelin le cui commedie, sotto lo pseudonimo di Molière, hanno da sempre varcato, e continuano incessantemente a varcare fino ai nostri giorni, frontiere geografiche, temporali e linguistiche, avvincendo fin dall'epoca di Louis XIV, con ciò che ne costituisce l'intima essenza – e cioè con la spietata introspezione analitica di individui operanti all'interno di quel determinato gruppo sociale ch'è la borghesia -, il pubblico d'ogni epoca e d'ogni Paese. Scelta ardua, dunque, e non poco coraggiosa. Si trattava, già in quello scorcio finale degli anni Quaranta, di documentarsi e di confrontarsi con una sterminata letteratura di secondo grado, che contava anche all'interno degli studi letterari italiani – a non voler parlare di quelli dedicati dagli studiosi francesi al loro compatriota – una lunga e gloriosa tradizione.


il saggio del Centonze appare, già ad una prima lettura, come uno scritto non irrilevante, nel cui stesso incipit, per cominciare, sono già tutte trascritte le indubbie doti del futuro narratore: «La sera del 17 Febbraio 1673, un sommesso bisbigliare, un brusio indistinto, animava la sorda quiete di una casetta della via di Richelieu, a Parigi. Sulla breve scaletta un accorrere precipitato di fantasmi dai costumi variopinti, che si arrestavano avanti ad una piccola porta. Facce su cui erano ancora segni di cerone, visi dalle maschere grottesche e ilari. Sembrava una scherzosa mascherata e non lo era. Qualcosa di tragico pesava sulla greve aria della casa e le maschere allegre parevano torcersi sotto la tesa di un intimo dolore. Ad un tratto la bassa porticina si aprì: "Il est mort", disse qualcuno dall'interno. La massa dei fantasmi ristette muta. Nel cervello di ognuno sembrò echeggiare un riso che dileguò alla lontana come una strana musica: era la risata, l'ultima, che neanche un'ora prima avevano udito risonare sul palcoscenico del "palais Royal", e che, uscita dalla gola di un morente, si era fermata in bilico sul filo del loro attonito dolore. "Il est mort". Chi era morto? Chi era l'uomo che nell'istante ultimo della sua vita adunava dinanzi alla sua porta sì insolita varietà di maschere? Era morto Molière».

 

Lo scritto, un vero e proprio saggio critico di poco meno di un centinaio di pagine suddivise in dodici densi paragrafi, viene dipanandosi a partire da una dozzina di pagine instroduttive che tratteggiano in modo felice, a partire dal secolo XIII e fino alla stagione della farce, il percorso storico del genere comico all'interno delle letterature neolatine. Sono pagine, queste, che attestano una documentazione effettuata con attenzione dall'Autore, il quale mostra, con rigore metodologico di impianto storicistico, di voler utilizzare il proprio excursus introduttivo, incentrato sull'analisi della farsa, allo scopo di finalizzarlo alla valorizzazione del commediografo prediletto: «Non si può ancora certo parlare di commedia: manca la tecnica di questa, manca l'intrigo, manca qualsiasi fine etico. Non si ha altro che la nuda descrizione di personaggi e di costumi; i soggetti sono portati alla ribalta come forme inerti, manca qualcosa di interiore che li animi; la loro completezza è esterioree e quindi lontana dai personaggi di Molière che vedremo animati da una loro vita intima, viventi perché rappresentano tipi esistenti nella società, ma soprattutto viventi perché questa vita scaturisce da una loro essenza interiore, dalla vita data loro dall'Arte.

 

Sfaccettata ai raggi del sole di un ingegno prestigioso, di una vena inesauribile vedremo brillare l'Umanità, vedremo divergere dal prisma della vita, l'Umanità vera, e la ritroveremo nell'Opera di Molière tutta soffusa di un riso giocondo e gaio, dove si sente a volte la lontana amarezza di un 'esperienza di cose vissute, e rimarremo attoniti, colpiti dai mille riflessi della sua luce, dall'infocato gioco delle sue immagini». Non dimenticando di stendere puntuali osservazioni sulla produzione di un Jodelle o di un Belleau, né tanto meno sulla attività in terra francese delle troupes di eredi della commedia dell'Arte, «[…] del cui modello Larivey prima e Molière dopo si serviranno per le loro pere» , il Centonze mette maggiormente a fuoco il vero oggetto della sua analisi, soffermandosi per diverse pagine, con puntualità e con misura critica, sulle fonti primigenie dell'arte molieriana: Plauto e Terenzio, in primo luogo, sui rapporti con l'opera dei quali è dato di registrare un accenno che, pur nella sua icasticità, giunge a confermare l'acume del critico castelvetranese: «Potrei addirittura dire che Molière interpretò Plauto covando in seno i sentimenti Terenziani. E in tutta l'opera di Molirère sentiremo serpeggiare quel senso fine, appassionato, di delicata comprensione delle umane pene che già avevamo notato in Terenzio».

 

Vengono successivamente ricordati, molto opportunamente, Boccaccio e gli spagnoli, e ancora Sorel, Scarron e Gringoire; per concludere poi in modo deciso, relativamente alla vexata quaestio delle imitazioni o plagi effettuati dall'autore del Bourgeois gentilhomme, che l'unico e vero modello questi «[…] lo ebbe nel mondo, nella società. E i tipi che egli crea sono di tutte le epoche, appartengono a tutti i tempi. Non imitazione quindi, intesa nel senso letterario, ma informazione su quanto avevano fatto gli altri e forse critica incosciente dei tipi e delle situazioni che gli altri avevano creato. Il suo modello, abbiamo detto, è la Natura, così come dalla Natura sono tratti i tipi creati da chi lo precedette». Perché davvero, per il Centonze, «[…] c'è qualcosa di più che una semplice descrizione, nella Commedia di Molière» ; e ancora «C'è l'idagine filosofica. E questa indagine che dovrebbe parere monotona e pesante, assume in lui le tonalità più calde. Cosa strana, più profonda si fa la sua investigazione, più il riso si fa brillante; più serio è il punto di partenza, più la sua "verve" cresce di intensità; più drammatico ne è l'argomento, più la sua satira ribolle. E questo tormentato mondo che Molière ha portato sulla scena, colpito dall'ondata umoristica che si diparte dalla sua anima non sempre serena, sembra dimenticarsi, affogare nel mare del suo sorriso, chiudere, nascondere in esso tutto il tragico della sua realtà, e si rotola e si affloscia e daccapo viene sommerso».

Si stratta di argomentazioni che rendono in modo compiuto, mi sembra, quanto lo studioso avesse saputo penetrare con amore e con vigile attenzione fin nelle più riposte pieghe dell'arte del grande drammaturgo da lui prediletto. Tal che l'intero scritto – pur nel suo dipanarsi attraverso paragrafi che ripercorrono tutte le tappe della vicenda molieriana con il ricorso, nel solco della tradizionale impostazione metodologica della critica letteraria transalpina, all'analisi contestuale dell'uomo e della sua opera – viene poi a porsi, in fin dei conti, come una lucida lettura critica della creazione drammaturgia del grande comédien del re Sole.


Nei primi anni Cinquanta, dopo questo sorprendente esordio saggistico, lo scavo sull'opera molieriana trova una sua appassionata prosecuzione: ed escono successivamente, per collane scolastiche di classici commentati per le Scuole, le curate edizioni de Les Préciuses ridicules e de Le Mariage forcé e ancora – a quel che ho letto su risvolti di copertina di altre sue pubblicazioni, non riuscendo tuttavia a poterne prendere diretta visione, nella impossibilità di rinvenirne copie – de Le bourgeois gentilhomme e de Le malade imagnaire.

Nella prima di tali pubblicazioni, le pagine dedicate alla sommaria biografia dell'Autore sanno rendere in pochi tocchi, con mirabile senso dell'equilibrio e dela misura critica, l'intera e appassionante vicenda molieriana; così come d'altro canto, la successiva Nota dedicata all'illustrazione di un testo solo apparentemente semplice qual è, per l'appunto, quello delle Précieuses ridicules, testo-chiave dell'impegno profuso dal Molière avversario del Preziosismo, offre al lettore una osservazione degna di essere rilevata, che conferma, ai nostri occhi l'attenzione riposta dal Centonze al contesto socio-politico-culturale all'interno del quale andava operando l'autore destinato a diventare il drammaturgo del re Sole: «Noi pensiamo che nell'opera si criticavano sì le false preziose e "les pecques provinciales", ma che nello stesso tempo anche l'"Hôtel de Rambouillet" fosse investito, ed in pieno, dalla ondata satirica. Può sembrare che con questa affermazione noi vogliamo metterci contro quanto lo stesso Molière aveva affermato. Non è vero: Molière era in una posizione delicatissima e non poteva dire chiaro e tondo di aver dichiarato guerra al marchese di Rambouillet attirandosi le ire e gli odi di persone potenti. Non aveva alcuna convenienza a far ciò, anche perché non era ancora entrato nel favore di Luigi XIV».


L'attenta ed intelligente attività di illustratore di testi letterari per gli allievi delle scuole, prosegue con fervore. E mentre il Centonze drammaturgo (che non pochi insegnamenti ha certamente tratto dalla fonte, Molière, cui si era sì amorosmente abbeverato) effettua il proprio esordio, viene a mano a mano ampliandosi anche il campo degli autori investigati. Sarà la volta ora, e nel volgere di pochi anni, del Daudet e del Flaubert. Le pagine introduttive ai testi appaiono sapientemente misurate, e anche in questo caso affiora da esse la solida e seria documentazione effettuata. Ma ancor più evidente appare la grande attenzione dedicata ai fascinosi meccanismi della scrittura: e si tratta, ora, d'una scrittura narrativa.


Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta prosegue, intanto, l'opera dello scrittore di teatro. Quella attenzione dedicata alla narrazione, alla scrittura narrativa – una attenziona, come s'è visto, affinatasi anche su due dei più fulgidi esempi della letteratura non soltanto transalpina bensì europea, quali furono Flaubert e Daudet – aveva costituito, all'interno del suo percorso di scrittore, l'avvisaglia d'una "svolta". Era il narratore, ora, che premeva in lui, spingendolo a provarsi, pur continuando a non trascurare la scrittura drammaturgica, nella stesura di una ricca serie di racconti, dalle pagine dei quali lievitano in superficie, qua e là, suggestioni ricevute dall'assidua lettura dei classici della narrativa di stampo realistico-naturalistico transalpino.
La conoscenza del mezzo linguistico francese non ha mai smesso, ovviamente, di continuare a supportarlo nella sua attività, e non soltanto, ben inteso, in quella "professionale". Vede così la luce una sua non irrilevante versione in lingua francese delle liriche del concittadino Giuseppe Lombardo, nella quale restano da notare non soltanto la fedeltà e l'eleganza applicate alla sempre ardua operazione di trasposizione linguistica, bensì, mi è parso, la sua stessa personale vis lirica, messa con mirabile misura al servizio dei componimenti poetici dell'originale tradotto (qualcuno ha detto del resto, come ben noto, che un poeta tradotto da un altro poeta è un terzo poeta), oltre – e la cosa mi sembra di notevole interesse sul piano storico-critico ad alcune suggestioni che, germinate nella frequentazione di poeti transalpini, avevano finito, con buona probabilità, per insinuarsi nel suo animo. Che una non trascurabile consonanza nei confronti delle voci liriche albergasse all'interno della sua sensibilità di lettore resta comprovato, d'altronde, dall'elegante scritto introduttivo alla prova poetica dell'amica Nella Cusumano. A non voler qui soffermarsi, ben inteso, sulla sua stessa produzione lirica, fra le pieghe della quale viene evocato, ad esempio, il nome di Rimbaud e dalla quale affiorano risonanze, certamente non casuali, dalla poetica della "quotidianità" di Prévert: basti richiamare l'incipit de L'Alfabeto di Dio, la composizione alla quale venne conferito, nel 1981, il "Premio Elimo":


Il caffè
versato sul lenzuolo,
il fuoco della cicca sul tappeto -
cova morde consuma, ne disvela la
trama.


Gli anni Ottanta – che ne confermano la felice e instancabile vena di autore di racconti e che lo vedono impegnato anche nello studio di figure appartenenti alla storia culturale nazionale alle quali Castelvetrano si gloria di avere dato i natali – segnano l'esordio del Centonze quale romanziere. Sul finire di quegli anni appare sul mercato librario "La misteriosa storia di Abdia", una avvincente narrazione che, assurgendo in modo emblematico a lucida disamina di una storia "collettiva" delle sofferenze e dei dolori patiti da singoli individui travolti dall'evento bellico, riesce a ricostruire quell'orrido clima da "morte dell'anima" che ha fatto giustamente richiamare il nome di Vercors; cui seguirà, alla metà degli anni Novanta, Al di là della siepe di bosso, una struggente storia d'amore ambientata sullo sfondo della sempre incombente guerra, e rivissuta per il lettore attraverso la memoria dolente del protagonista, nel suo più intrinseco e fulgido significato poetico. Naturalmente, non mancano neanche in queste due ulteriori, e felici, prove dello scrittore, come era facile ormai attendersi, risonanze più o meno evidenti da un' intera linea narrativa otto-novecentesca transalpina, quella linea alla cui fonte egli non aveva mai smesso di nutrirsi.

 

Sul finire degli stessi anni Novanta, però, è di nuovo il ritorno alla "misura" del racconto quello che finisce per prendere la mano allo scrittore. Si tratta di un ritorno felice, direi anzi felicissimo, che consacra in modo definitivo, con Un uovo di sale, la figura del Centonze quale narratore robusto, pervaso da vis satirica e, insieme, da toni lirici, attento lettore d'una cruda realtà alla quale bisogna sforzarsi, restando gelosi della propria identità, di opporsi con ogni mezzo per tentare, nonostante tutto, di cambiarla. Si tratta di una raccolta ricca, pregna di significati, da ogni pagina della quale trasuda costantemente il generoso senso umanitario al quale l'autore ha improntato l'intera sua esistenza. E molto opportune appaiono, infatti, le parole con le quali il Vasile conclude le pagine introduttive vergate per il volume: «Mi auguro che i lettori, spero numerosi come quest'opera merita, sappiano trarre dalle sue pagine quel diletto che ho provato io, quel brivido, come ho già detto, di follia che redime il mondo».

 

Mi siano consentiti infine in chiusura di questo mio intervento, un riferimento ed un rimpianto personali.
Riallacciandomi alla peculiare attenzione consacrata al teatro da Ferruccio Centonze e alla passione da lui profusa nella pratica della scrittura drammaturgica, una pratica che ha continuato a contraddistinguere la produzione fino agli ultimi anni di vita, è proprio con il teatro e con l'autore diletto, così come ho fatto in apertura che tengo a concludere queste mie note.
Mi sono interessato, in anni ormai lontani, alle versioni dialettali che, nei secoli, sono state approntate nel nostro Paese dalle commedie dell'immortare Molière. Ora, con riferimento ad una delle fatiche più robuste e felici del Centonze, mi sorge spontaneo chiedermi, e non mi impedisco di farlo ad alta voce, cosa mai avrebbe potuto riservarci un Molière "siciliano" da lui adattato. Chissà che lui, che proprio da Molière e con Molière aveva iniziato il proprio percorso, non si fosse trovato mai a pensarlo. Certo rimane il fatto, a mio avviso e ripensando a quelle sue dense pagine giovanili sul drammaturgo transalpino, che si sarebbe trattato, nel caso avesse visto la luce, di un godibilissimo Molière in veste insulare, in grado di attrarre e di far riflettere i nostri giovani, in grado di rivaleggiare, senza temi di confronti, con il sei-settecentesco Molière bergamasco-veneziano del Bonicelli; con quello settecentesco bolognese del Lotti e toscano del Girolami; con gli altri settecenteschi napoletani (del Pioli, del Trinchera e dell'anonimo Tofano Rotontian) o genovesi (del de Franchi); con quello ottocentesco napoletano dello Zezza o genovese del Persoglio; con quelli, per finire, novecenteschi: il Molière piemontese del Drovetti, quello napoletano del Torelli, quelli veneziani del Duse, del Benini e del Simoni.


La cultura francese, e quella letteratura transalpina che lo avevano avvinto fin dagli esordi della sua attività di docente e di scrittore, hanno accompagnato Ferruccio Centonze, insomma, lungo l'intero itinerario umano ed intellettuale, e lo hanno in qualche modo, per così dire, contraddistinto. Anche per lui si potrebbe dire, in definitiva, ciò che per altri scrittori siciliani è stato possibile affermare: che, cioè, essi abbiano costantemente volto lo sguardo verso la consorella cultura francese; o ancor di più, e a voler utilizzare ciò che Vincenzo Consolo ha affermato parlando di se stesso, che la Francia ha rappresentato e continua a rappresentare, per uno scrittore siciliano la «Patria ritrovata». Lungo il suo itinerario, anche Ferruccio Centonze, ne sono convinto, ha costantemente volto lo sguardo verso quella Patria "altra", verso quella Patria che non aveva mai dismesso di parlargli nell'animo con le seduttive voci di Molière, di Flaubert, di Baudelaire, di Daudet, di Bourget, di tanti altri ancora. Perché , in definitiva, egli ebbe sempre, per così dire, la Francia nel cuore.
E si tratta di un itinerario, il suo, che oggi, più che mai, può valere da esempio da additare alle giovani e meno fortunate generazioni.

Dalla consapevolezza dell'intrinseco valore della lettura quell'itinerario è stato costantemente sostenuto: né possono esservi dubbi sul fatto che, fra gli autori letti, quelli francesi abbiano costituito parte preminente del nutrimento intellettuale del nostro scrittore.

Nella stagione del trionfo incontrastato dell'immagine, che spesso cela allo sguardo ben più crude realtà, e nella stagione dell'utile ma spesso anche pericolosamente fuorviante strumento costituito da Internet, il ritorno, la necessità del ritorno alla lettura dovrebbe tornare a trovare spazio nelle coscienze di quanti vogliano continuare testardamente a nutrire il diritto di cittadinanza da salvaguardare alle idee e al libero esercizio della critica: è questo, forse, uno degli insegnamenti che Ferruccio Centonze ha voluto lasciare, ha voluto lasciare a tutti noi, che per questo, e per molto altro ancora, non smetteremo mai di esserGli grati.


I testi delle conferenze sono stati tratti dal "Convegno su Ferruccio Centonze" edito su "Logoi" del 2008 in cui il Liceo classico G.Pantaleo di Castelvetrano annualmente pubblica le attività didattiche svolte.